Testimonianza
Fondamenta cooperative
Friuli-Venezia Giulia
La voce di un grande cooperatore, Giuseppe Lozer
“Starò sempre in guardia, come il dovere mi impone, contro ogni errore che possa offuscare, menomare l’integrità della fede, massimo dei doni da Dio elargito”. Nato a Budoia il 24 luglio 1880, da Bortolo e Lucia Fort, Giuseppe Lozer terminò gli studi nel Seminario di Portogruaro (VE) nel 1901, ma venne ordinato sacerdote solo il 1 febbraio 1903, in quanto doveva attendere il compimento del ventiduesimo anno e mezzo di età. Il 13 febbraio dello stesso anno fu subito nominato economo spirituale della parrocchia di Torre – quartiere di Pordenone – e parroco nel settembre 1904. Dal 1926 fu Canonico della cattedrale di Concordia e insegnante del ginnasio-liceo Marconi fino al 1944, nonché vicario foraneo di Portogruaro fino alla medesima data. Nel 1945 divenne arciprete di Lorenzaga – frazione di Motta di Livenza (TV) -. Nel 1947 fu di nuovo parroco a Torre, su richiesta dei paesani, fino al 1957, quando chiese di diventare ospite della Casa di riposo Umberto I di Pordenone. Morì il 4 maggio 1974. Nella Destra Tagliamento egli fece parlare, con don G. M. Concina a Prata di Pordenone (PN) e con Annibale Giordani nello spilimberghese (Spilimbrego PN), di una triade di sacerdoti che nel pordenonese affrontarono la questione sociale facendo leva sulle masse contadine, contemporaneamente impegnandosi nella costruzione di cooperative di vario tipo. Le memorie di don Lozer sono la testimonianza di una vita quanto mai attiva, se pensiamo al suo lavoro ecclesiale e soprattutto di organizzatore politico, sindacale e cooperativistico dei cattolici di Torre, di Pordenone e della diocesi; alla Cassa operaia di credito volta soprattutto alla realizzazione di case operaie (poi Banca cooperativa operativa di Torre); all’Unione cooperativa di consumo; al Mulino ed al Forno cooperativo; alla Tipografia sociale cooperativa di Portogruaro; alla Società di assicurazione bovini, alla Cooperativa dell’Ago ed alle tante altre idee concepite e non realizzate dal vulcanico sacerdote, come la Cooperativa case popolari e la farmacia cooperativa. Di seguito si riportano le memorie ed i ricordi autobiografici (terminate di compilare nel 1967) del suo essere anche padre della cooperazione pordenonese La Cassa Operaia In un paese composto in massima parte di operai dell’industria era conveniente e utile promuovere una istituzione per incoraggiare al risparmio, ma non come semplice piccola riserva individuale o familiare, ma come mezzo per piccoli prestiti garantiti, secondo i riconosciuti bisogni, come atto di solidarietà fra lavoratori nelle imprevedute disgrazie o necessità di vita, e soprattutto, data la grave scarsezza di abitazioni, per incoraggiare i nullatenenti a divenire proprietari di una casetta e di un orto. Vi erano famiglie dove genitori e figli o fratelli e sorelle dovevano dormire in una sola camera. Casupole, vere stamberghe, da demolirsi per ragioni igieniche e morali. La costruzione di case era necessaria, urgente. Fino al 1903 e seguenti non esistevano leggi a favore dell’edilizia popolare. I governi liberali, che da tanti anni detenevano il potere, non si erano mai preoccupati di favorire, di incoraggiare la costruzione di case popolari. Pensai che bisognava realizzare il proverbio: “Aiutati che il Ciel ti aiuta”. Nel 1904 convocai un gruppo di operai e di contadini che sapeva fedeli al parroco. Esposi loro le finalità di una Cassa per piccoli risparmi e piccoli prestiti. Rimasero molto soddisfatti. Approvarono il breve statuto; in una seconda riunione si nominò il Consiglio di Amministrazione, il Presidente e si volle assolutamente quale cassiere il parroco; la cassa era privata; prima di legalizzarla, volli accertarmi se avesse attechito. Preparai i libretti di deposito a piccolo risparmio, i registri; ottenni l’uso di un’aula scolastica dalle otto alle dodici nelle domeniche, incaricai un cotoniere (nel quartiere di Torre di Pordenone si era sviluppata una fiorente industria tessile) fidato e consigliere per ricevere i piccoli risparmi e tenere la prima nota, che mi portava in canonica con le somme incassate che io registrava poi a giornale e nel partitario. Il minimo deposito era di 50 centesimi; la massima parte di due o cinque lire. Si deve notare che allora la moneta d’oro, il napoleone o marengo, valeva venti lire e la carta faceva aggio sull’oro. Quando portava alla Banca di Pordenone mille lire carta, mi segnavano sul libretto cinque lire in più. Dopo un anno di esperimenti, costituii la Cassa Operaia legalmente in nome collettivo, e nel dopo guerra la trasformai in Cassa Cooperativa con azioni di lire cento a capitale illimitato e a responsabilità limitata. Per gli sconti degli effetti cambiari dal 1905 al 1915 non ci fu mai un protesto. Tutte le cambiali vennero regolarmente pagate, tranne una di lire sessanta per la morte del firmatario, impiegato in Cotonificio di Torre. Per essere breve: nel 1907 la Cassa Operaia acquistò, coi risparmi depositati, un lungo tratto di terreno. Ivi costruì la prima casa operaia e dopo, su quel terreno venduto dalla Cassa senza alcuna speculazione a lire una o a centesimi sessanta al metro in piccoli appezzamenti di 500 o mille metri, si fabbricarono decine e decine di case sane e soleg- giate. Un secondo, terzo e quarto lotto di terreno vennero acquistati e suddivisi come il primo. Gli operai acquirenti dovevano pagare il terreno per intero; ciò fatto, la Cassa finanziava la costruzione della casa; quando coi risparmi quindicinali questa era pagata per la metà, si faceva il trapasso della proprietà e il nullatenente diventava piccolo proprietario di quattro stanze, raramente di sei, e di un appezzamento di terreno che lavorava con amore e dopo qualche anno l’uva che raccoglieva gli rendeva tre, cinque e anche sette ettolitri di vino. E chi aveva acceso il debito con la Cassa faceva economie per estinguerlo al più presto. Sull’ultimo terreno, acquistato subito dopo la seconda guerra, quasi al centro del paese, vennero fabbricate quattro case del cosiddetto piano Fanfani e cento belle villette operaie. Dal 1955 la Cassa ha preso il nome di Banca Cooperativa Operaia: l’unica Banca in Italia a portare il nome di operaia. L’Unione Cooperativa di Consumo A Torre di Pordenone venne aperto fin dal 1894 un Magazzino Cooperativo di spaccio alimentari, vino, carne, legna in uno stabile del Cotonificio Veneziano. Nei primi anni fu amministrato da persone equilibrate, rispettose, non partitanti. Ma dal 1900 fino al 1929, quando venne chiuso per fallimento, divenne il centro della propaganda socialista. Non era un socialismo democratico, laburista col quale per me sarebbe stato ben facile accordarmi, ma un socialismo fazioso, settario, antireligioso, e dopo la prima guerra sfociato nel comunismo. Basti dire che quando passava la processione del venerdì santo, si teneva aperto lo spaccio, si vociferava e si affettava carne insaccata per fare dispetto. Due volte, al passaggio della processione del Corpus Domini, da una finestra del locale si gettarono sul baldacchino dei calcinacci. Bravate banali, provocazioni idiote, che poi furono scontate con un fallimento disastroso. Dalla fondazione era sempre stato socio il parroco defunto don Corrado. Presentai domanda per esserlo pure io. Ma il consiglio di Amministrazione in data 8 settembre 1903 respinse la mia richiesta. Protestai contro l’affronto con lettera del 10 seguente rilevando che io ero più povero del mio predecessore e che servivo tutti i cotonieri e altri operai richiedenti assistenza del mio ministero. Inutile protesta. Dopo aver ricevuto la nomina di parroco chiamai a raccolta i soci a me fedeli ed altri operai e contadini non soci. Lessi la domanda presentata, la risposta e la replica. Aggiunsi che i soci cattolici non dovevano permettere che lo statuto fosse così sfacciatamente violato. Mi si rispose che se uno avesse avuto il coraggio di reclamare in assemblea, sarebbe stato sopraffatto e urlato. Allora nel 1905 proposi di istituire una società denominata “Unione Cooperativa di Consumo”. Lessi gli articoli fondamentali, chiarii i dubbi, mi assunsi di superare opposizioni, difficoltà. Si nominò un comitato. Feci acquistare dalla Cassa Operaia due locali a piano terra costruiti con mattoni crudi vicino alla piazza. Si demolirono; si costruì un grande locale che doveva essere la sede della nuova cooperativa, come lo è stato fino a qualche anno fa. I sacrifici da me sostenuti furono assai pesanti e duri, oggi dimenticati. Il 5 dicembre 1905 a rogito del notaio dott. Voltolini si costituì la società anonima Unione Cooperativa di Consumo con sede in Torre di Pordenone che venne aperta nel 1906. Allora le Cooperative operaie erano esenti dal dazio sul vino. La ditta Grezzani, appaltatrice del dazio, impose di pagarlo perché vi erano dei soci da essa ritenuti abbienti. Studiai la legge e la giurisprudenza. La ditta Grezzani citò la Cooperativa a pagare; feci opposizione. Il Tribunale di Pordenone accolse le ragioni della Società e la sentenza fu a noi favorevole. Ma la ditta ricorse in Appello a Venezia e la Cooperativa fu soccombente e condannata a pagare anche gli arretrati del dazio non corrisposto dalla fondazione. Ho passato dei giorni cruciali. Ma con offerte di soci, con una sottoscrizione aperta sulla rivista “Cooperazione popolare”, organo delle Società federate, si riuscì a superare il sequestro. Gli avversari, che si godevano per la causa perduta e speravano il fallimento dell’Unione Cooperativa, rimasero delusi. E la società andò progredendo di anno in anno. Per l’invasione austro-ungarica, seguita al disastro di Caporetto, la Cooperativa venne saccheggiata e ridotta a stalla di muli. Dopo la vittoria, avvenuta la liberazione, denunciai i danni sofferti presentando semplicemente l’ultimo bilancio del 30 giugno 1917 e il libro Cassa, unico registro salvato, rimettendomi al criterio e alla coscienza dell’Intendente di Finanza per la somma da liquidarsi. Il terzo pagamento per danni di guerra eseguito in Provincia di Udine fu quello dell’Unione Cooperativa di Torre che nel 1920 riprendeva la sua attività e la continua fra le più importanti cooperative di consumo della provincia di Udine (Pordenone divenne provincia solo nel 1968). Nel 1922 il Ministro delle Terre liberate on. Merlin, senatore democristiano, venne a Torre alla inaugurazione dei nuovi locali del Magazzino che prese il nome di Cooperativa Sociale. Ma nel 1929 falliva con la perdita di tutto, locali e terreno compresi, un vero disastro. Tre consiglieri, perché la società potesse avere delle merci, avevano firmato in proprio delle cambiali ai fornitori che vollero essere pagati integralmente dai firmatari responsabili, non come consiglieri della Società fallita. Questi avrebbero dovuto vendere la loro proprietà per saldare le fatture. Tre famiglie rovinate. Venuti da me a Portogruaro, mi fecero compassione. Feci radunare il Consiglio dell’ Unione Cooperativa. Intervenni come fondatore e come sindaco. Esposi la situazione dei tre firmatari delle cambiali. Bisognava salvarli, dissi, anche a costo di qualche sacrificio; dobbiamo fare agli altri quello che vorremmo fatto a noi medesimi. Il Consiglio non voleva saperne e ricordava le malefatte contro di noi dal Magazzino Cooperativo Socialista. Seduta laboriosa, difficile. Rivolsi ai presenti una domanda: “Siete cristiani falsi o cristiani sinceri? Se siete veri cattolici, dovete perdonare i torti ricevuti e fare del bene anche a chi ci ha fatto del male. E’ duro, lo so, l’ho provato e lo provo. Ma quello che costa niente, vale niente. Sentite: “una quota delle cambiali la pago io, l’Unione Cooperativa si assuma le altre due quote”. Sebbene di malavoglia, feci mettere a verbale la mia proposta, a denti stretti, e così tre famiglie poterono conservare la loro piccola proprietà. E l’importo complessivo pagato dalla Cooperativa e da me fu di trentamila lire che oggi, per la svalutazione della carta moneta, corrisponderebbero a circa tre milioni di lire; il gesto fa onore alla Società che ha continuato e continua a prosperare di anno in anno, con patrimonio cospicuo, con notevole giro di vendite, con larga fiducia commerciale. E i locali e i terreni della Cooperativa Socialista, che mi ha respinto da socio nel settembre del 1903, sono divenuti nel 1935 mia proprietà che ho poi donato alla Chiesa parrocchiale di Torre con destinazione a ricreatorio della gioventù e abitazione del Cappellano. II Molino e Forno Cooperativo e altre Società Nel primo ventennio di questo secolo le famiglie operaie consumavano molta farina di granoturco; in tutte le case si faceva la polenta. Oggi è sostituita dal pane, molto più nutritivo. A Torre mancava un molino; per macinare si doveva andare fuori paese. Era conveniente installarne uno. Nel 1908 lanciai la proposta in una adunanza; piacque. Si fece la sottoscrizione di azioni da L.50 l’una; la Cassa Operaia cedette un appezzamento di terreno all’estremità del quale aveva costruito una abitazione popolare che servì poi ad abitazione del mugnaio. Costituita legalmente la Società Molino Cooperativo, si fabbricò il locale; si provvide da prima una coppia di macine francesi, le migliori, il motore, il buratto e tutta l’attrezzatura occorrente. Nel secondo semestre del 1909 si macinava. Il lavoro era intenso, si dovette provvedere un’altra coppia di macine che poi vennero sostituite da tre cilindri. La lavorazione era ed è perfetta; il cliente quando arriva al Molino pesa la sua granaglia e la ripesa ridotta in farina e crusca. Nessun sotterfugio o trattenuta. Affluivano al molino di Torre anche diverse famiglie dei dintorni perché constatavano la macinazione superiore, la onestà e la convenienza. Mentre il Magazzino Cooperativo Socialista piuttosto che usare del molino paesano, denominato dai compagni “molinello cattolico” mandava ogni settimana al molino di S. Quirino, o di Roveredo, o di Cordenons (comuni della provincia di Pordenone). A tanta bassezza arrivava la settarietà rossa! Avere il molino in paese e non servirsene perché istituito da cattolici! Ma il molino lavorava appieno, e prima della guerra 1915-18, quando non erano sorti altri molini nei dintorni di Pordenone, era la Società che più di tutte aiutava le opere parrocchiali e poi l’asilo. Durante l’invasione fu provvidenziale; quanta povera gente di nascosto poté macinare e avere la farina per la polenta! E benedicevano il prete che aveva fatto sorgere a Torre il molino. Il Forno Cooperativo I contadini che venivano al molino a macinare il frumento si lamentavano per la mancanza di un forno. A Torre ce n’era uno solo con riscaldamento a legna, senza attrezzatura meccanica e non poteva accontentare tutti. Visitai fuori del circondario una dozzina di forni a vapore; persuasi l’ Unione Cooperativa dei vantaggi che avrebbe realizzato con l’apertura di un forno moderno. La ditta svizzera Werner e Pfaider, con sede anche a Milano, dava i migliori affidamenti per la qualità dell’acciaio, per la cottura e per la durata, come aveva controllato nel giro. Nel 1914 il Forno Cooperativo, adiacente al molino, incominciò a funzionare con generale soddisfazione. Durante la invasione del 1917-18 fu tanto utile per molte famiglie; si portavano al forno anche zucche per cuocerle bene e mangiarle in mancanza di pane e come nutrimento. Nel 1954, pur essendo ancora, dopo 40 anni, in piena efficienza, fu sostituito con un forno più grande, annesso non più al molino ma alla Cooperativa, con riscaldamento a nafta. Poteva produrre pane in quantità e forniva pure il Seminario. La Tipografia Sociale Cooperativa Si sentiva il bisogno nella nostra Diocesi di Concordia, che conta circa 320 mila abitanti, 175 parrocchie, di una tipografia per la stampa del settimanale, per la Curia, per l’Azione Cattolica e per ogni servizio editoriale. La Direzione diocesana, nel 1909, deliberò di fondare una tipografia sociale cooperativa, affidando a me l’incarico di approntare lo statuto, di organizzarla, e di provvedere quanto fosse necessario per l’impianto e il funzionamento con sede a Portogruaro (VE). Venuto a conoscenza che il benemerito e insigne mons. Coccolo, poliglotta, alto esponente della Lega Antischiavista Italiana, iniziatore dei cappellani di emigrazione sulle navi, nominato canonico di S. Pietro a Roma, stava liquidando la sua tipografia per la chiusura di un Istituto dei Padri di don Comboni da lui aperto a S. Vito al Tagliamento (PN), trattai per conto della Tipografia Sociale l’acquisto dei macchinari, caratteri e banconi. Mons. Coccolo, che fu mio professore e che mi aveva sempre dimostrato benevolenza fino a volermi con lui per una missione parrocchiale da fondarsi in Brasile con l’autorizzazione del Santo Padre, e alla quale proposta il Vescovo si oppose (conservo ancora le lettere), per favorire la Diocesi, pur avendomi richiesto, per tanto materiale, almeno venti mila lire, si accontentò della mia offerta di 13 mila lire da versarsi subito in contanti. Affare, come si dice, d’oro, che stupì il Consiglio di Amministrazione. La tipografia da S. Vito venne trasportata a Portogruaro. Nel 1910 il settimanale diocesano “La Concordia” era stampato nella nostra “Sociale” sotto la direzione di don Annibale Giordani, oratore, scrittore, polemista valoroso, con soddisfazione del Clero e del laicato cattolico. Per la invasione del 1917-18 la Tipografia venne completamente distrutta e asportata. Dopo la liberazione non si è trovato nè un chilo di piombo di caratteri, nè un registro, nulla, come se non fosse mai esistita. Assicurazione bestiame A Torre nel 1920 erano morte quattro bovine; una vera disgrazia per quattro famiglie, in quegli anni di stenti. Convocati tutti quelli che avevano del bestiame, sentito il loro parere, accettato un breve statuto, il 7 marzo 1921 venne costituita la Società di Assicurazione bovini di Torre che fu di vantaggio a parecchie famiglie e che concorse a migliorare la zootecnica del paese. Dopo dieci anni di vita, cessò di funzionare. Cooperativa Case Popolari Vista la necessità di nuovi alloggi per l’aumento della popolazione, considerato che la Cassa Operaia non poteva più immobilizzare tanti risparmi, presa conoscenza del testo unico della legge sulle Case Popolari economiche del 30 novembre 1921, n. 2318, fatta la opportuna propaganda, raccolte sottoscrizioni di 120 soci, il 17 dicembre 1922 veniva costituita a rogito notarile la Cooperativa Case Popolari di Torre, adempiute tutte le formalità di legge. Sennonché i maggiorenti del fascismo di Pordenone, per far vedere il loro interessamento per l’edilizia popolare vollero promuovere l’Istituto Case Popolari. Mi richiesero di associarmi, di far aderire con azioni le Società Cooperative di Torre e di fondere nell’Istituto la Cooperativa Case, con assicurazione che sarebbe stata data la preferenza a Torre per i fabbricati da costruirsi. Per amore di pace accettai le richieste dell’Istituto; le Cooperative di Torre sottoscrissero ciascuna dieci mila lire di azioni; sospesi ogni attività della Cooperativa Case, ma rimborsai a tutti il capitale versato addossandomi le spese incontrate per la costituzione, per la pubblicazione di legge e per la stampa dello Statuto. Così la fusione fu evitata. E fu bene, Dopo qualche anno l’Istituto Fascista Case Popolari veniva dichiarato fallito con la perdita di tutto il capitale senza aver costruito nemmeno una casupola. Incredibile ma vero! Le Società di Torre ed io abbiamo subito una perdita di 50 mila lire, oggi sarebbero cinque milioni. In Italia e in Europa non è mai successo che un Istituto di Case Popolari fosse fallito senza aver costruito un metro di muro. Ma questo è avvenuto a Pordenone all’inizio dell’era fascista. Che brava e avveduta gente! Se questo trucco, se questo affare oscuro, se questa turlupinatura fossero stati compiuti da una nostra Società che cosa sarebbe accaduto? Cooperativa dell’Ago Dopo la liberazione, negli anni 1920-21, non tutte le fanciulle e ragazze della parrocchia potevano essere assunte al lavoro in Cotonificio. Pensai di organizzare una Cooperativa di taglio e cucito che avrebbe potuto assumere commissioni di lavoro non solo da privati, ma anche da ditte e dalla Intendenza Militare. Le giovani furono orgogliose di avere una società per loro conto, versarono con entusiasmo l’azione di L. 20. Il 13 novembre 1921 la Cooperativa dell’Ago veniva costituita legalmente, approvata dal Tribunale il 29 seguente e registrata al Ministero del Lavoro col numero 6367. Dall’Opera Bonomelli per l’assistenza agli emigrati, di cui era socio e corrispondente, riuscii ad ottenere quattro macchine da cucire use di cui l’Opera disponeva per le sue attività. E così la Cooperativa col suo Consiglio di Amministrazione, composto, si capisce, di socie, con la presidente Luigia Sartor Casetta vedova di guerra, con la segretaria Stefania Stefani impiegata e con una suora, maestra di taglio, incominciò a funzionare e ad assumere commissioni di lavoro intanto da privati. Il bilancio stampato del 15 settembre 1924 presentava un utile di L.919,50 con un piccolo patrimonio di L.2919. Trasferitomi a Portogruaro, il mio successore non ritenne suo compito occuparsi della piccola Cooperativa dell’Ago. Così nel 1928 venne liquidata, le socie rimborsate delle azioni e le macchine donate alla Scuola di lavoro. Farmacia Cooperativa Nel 1924 Torre contava 4.280 abitanti. Era sentito il bisogno di avere in paese una farmacia. O di notte o in giornate fredde e piovose era disagevole dover fare tre chilometri per prendere le medicine a Pordenone. Aprii una sottoscrizione per promuovere in paese una Farmacia Cooperativa con azioni di L.50. Ben molti furono gli aderenti. Iniziate le pratiche per il nulla osta della Prefettura, i farmacisti di Pordenone, attraverso la loro Associazione di Udine, si opposero perché in Comune c’erano già quattro farmacie; la legge autorizzava allora l’apertura di una far- macia ogni cinque mila abitanti e siccome nel 1924 la popolazione del Comune non raggiungeva i 25 mila abitanti, per quante insistenze avessi fatto, la Prefettura non concesse l’autorizzazione, adducendo le tassative disposizioni di legge. Ma il Comune contava ben più di 20 mila abitanti! Non importa; ma non raggiungeva i 25 mila! Pretesti, pignolerie, assurdità di funzionari che hanno preferito compiacere a quattro farmacisti e di fare i loro interessi anziché agevolare un paese di operai. La farmacia a Torre è stata aperta nel 1947 e concessa a un dottore profugo istriano. Estratto da “Ricordi di un prete” (F. Mariuzzo 2000)