cooperativa
Ecolcoop
Trento - Trentino Alto Adige/Süd Tirol
Per 45 giorni la sala mensa della Marangoni è stata la mia casa. Così ho difeso il diritto a non pagare con il licenziamento il mio impegno politico. In cooperativa la mia voglia di lavorare ha trovato la migliore espressione. Senza compromessi.
L’inverno dell’85 è stato il più freddo degli ultimi cinquant’anni. Né prima, né dopo allora, ho più visto le acque dell’Adige congelarsi. Fuori dai cancelli della Marangoni, nell’aiuola prima della strada, il fuoco era sempre acceso, alimentato dalle radici e dagli scarti di legna che i miei colleghi trascinavano con sé al mattino, arrivando al lavoro. Qualcuno portava anche delle arance, una fetta di crostata fatta in casa o del vino in cartone per fare il brullè. Il calore che avevamo nel cuore non bastava per scaldarci mani e piedi. Vicino al fuoco avevamo improvvisato due baracche, con le pareti di lamiera e un fornello a gas per scaldare l’interno. Due tavoli e quattro sedie rappresentavano l’arredamento. La Marangoni aveva messo in cassa integrazione 70 dipendenti, come anticipo di un inevitabile licenziamento. Io ero tra loro. Avevo trent’anni, una moglie e una figlia di 5 anni. E, soprattutto, non capivo. Perché era inevitabile? Il bilancio della fabbrica era positivo.
L’utile – allora come sempre in seguito– segnalava una buona redditività. Quando compresi tutto cambiò: quello era solo un tentativo per eliminare dall’organico le persone scomode per appartenenza politica. La Marangoni aveva offerto a ciascuno di noi 8 milioni e mezzo di lire per accettare il licenziamento. Non erano pochi soldi, circa lo stipendio di un anno. Ma erano insufficienti per comperare la mia dignità. Per quarantacinque giorni (45 GIORNI!) la sala della mensa è diventata la mia casa. Io e Luciano De Zambotti l’abbiamo occupata, passando lì anche il Natale. L’unico presagio di festa era un nastro d’oro arrampicato su una vecchia pianta fuori dai cancelli. Quel giorno mia moglie venne a trovarmi e mi passò due fette di polenta e un termos di caffè caldo dalle inferiate. Mi raccontò come era difficile trovare parole convincenti per spiegare a mia figlia la mia assenza, in quella giornata di festa. E il velo sui suoi occhi mi suggerì che anche per lei non era facile. Nelle due settimane successive il termometro non è mai salito sopra ai –19 gradi. Tutte le mattine ci alzavamo presto e andavamo ad accogliere i colleghi che arrivavano per il turno delle 6. Ci portavano qualcosa di caldo e facevano due chiacchiere con noi sulla produzione. La domanda era sempre la stessa: è aumentata? Poi leggevamo i giornali che due volte su tre parlavano di noi. Quella della Marangoni è stata una delle vertenze sindacali più dure che il Trentino ricordi. Ma eravamo, purtroppo, in buona compagnia: la Vallagarina era sconvolta da una crisi industriale che si espandeva a macchia d’olio. La Grundig aveva licenziato 300 operai. La Garniga 9 su 27. Altri avevano perso il lavoro offerto da piccole fabbriche, dai nomi oggi dimenticati. Con l’arrivo dell’anno nuovo giunsero anche le sirene dei carabinieri, inviati dalla proprietà per farci andar via. L’accusa era di occupazione abusiva di proprietà privata. Ci siamo incatenati perché quella era anche la nostra azienda. Ci lavoravo da quando avevo sedici anni. Da tredici ero nel consiglio di fabbrica. Dopo la lettura dei giornali si decideva il da farsi. Manifestare davanti alla sede roveretana di Assindustria, bloccare qualche strada, occupare il municipio, organizzare dei pullman per andare a urlare il nostro scontento sotto i vetri lussureggianti della Provincia. Quante battaglie. Le abbiamo provate tutte. I colleghi operai che la Marangoni aveva deciso di non licenziare ci hanno sostenuto con oltre 200 ore di sciopero. Anche chi aveva famiglia. Anche chi faticava ad arrivare a fine mese. Una solidarietà calda come un abbraccio che ci ha dato tanta forza. Il mio capo reparto si chiamava Gianfranco Pederzini. Lavorava in Marangoni da trent’anni (e in seguito ne ha trascorsi lì altri 22) ed era di Marco di Rovereto, come me. Lui non comprendeva le ragioni della nostra lotta. O, forse, riteneva che gli operai non dovessero mai alzare la testa. Eppure, anche prima di questa vertenza, le richieste del consiglio di fabbrica non erano state “frivole”.Non chiedevamo il recupero compensativo o mille lire in più alla settimana. Ci battevamo per fare installare cappe aspiranti, che diminuissero le polveri dannose che respiravamo ogni giorno. Chiedevamo di poter lavorare in salute e sicurezza. Io e Gianfranco abbiamo discusso tante volte, ma l’ho sempre rispettato per la sua professionalità. Quando, qualche mese dopo, è partita l’avventura della cooperativa Ecolcoop proprio io l’ho proposto come consulente tecnico. E lui ha accettato e ci ha accompagnato nella fase di avvio. Perché il lavoro è lavoro. Per organizzare gli scioperi facevamo presto. Uno di noi entrava in fabbrica con un megafono e gridava: “Tutti fuori”. E così era. Tra gli impiegati, però, c’era chi non credeva in questo strumento. Gli abbiamo impedito di andare al lavoro, bloccando i cancelli. E quando non siamo riusciti a farlo per l’entrata, l’abbiamo tentato per l’uscita, costringendolo a stare in azienda fino a notte fonda. Abbiamo incamerato qualche denuncia per sequestro di persona. Ma la nostra causa era troppo importante. Ogni giorno chiamavamo i colleghi dei consigli di fabbrica della Marangoni di Feltre, Milano e Bologna dal telefono a gettoni al piano terra. Controllavamo che la ditta non trasferisse commesse da Rovereto alle altre filiali, e che quindi la nostra protesta provocasse gli effetti economici desiderati. Alla fine dell’occupazione, a febbraio, cadde un metro e mezzo di neve in un pomeriggio. Le macchine finirono coperte e molti non riuscirono a uscire dai portoni di casa, bloccati da un muro bianco. Fu un presagio di cambiamento. La mia lettera di licenziamento arrivò il 17 marzo del 1985, dopo 2 anni di cassa integrazione. Non ero certo sorpreso, ma fu comunque un colpo. Ricordo quella data come fosse il compleanno di un figlio mai nato.
In quei due anni non è passato un giorno senza che andassi in fabbrica almeno un paio d’ore. A parlare con i colleghi, con i politici che ci facevano visita e con i tanti amici di partito. Paolo Tonelli veniva a trovarci un paio di volte in settimana, così come Roberto Pinter. Anche qualche camionista si fermava incuriosito dal nostro fuoco. Ancora oggi, guardando un falò, non posso fare a meno di chiedermi cosa vuol dire per chi l’ha acceso. Per noi era un segnale. Un grido di allarme che denunciava che in quella fabbrica stava succedendo qualcosa di grave. Tutti dovevano sentirlo, anche solo passando in macchina, distrattamente, ascoltando la radio o chiacchierando con i bambini. E così fu. La decisione di fondare la cooperativa Ecolcoop, insieme ad altri operai licenziati dalla Marangoni, dalla Grundig e dalla Garniga, mi ha consentito di uscire da questa situazione di empasse.
Dopo gli anni caldi della protesta, nessuno di noi avrebbe trovato facilmente lavoro. Anche se eravamo giovani e pieni di forza e volontà, la nostra determinazione avrebbe spaventato dei futuri datori di lavoro. Così abbiamo deciso di diventare imprenditori di noi stessi. Di rinunciare all’individualismo per la solidarietà. Ma di non rinunciare mai al libero pensiero. Abbiamo dovuto imparare un nuovo mestiere, all’inizio, facendo un corso di formazione per operatori del verde. Quello era, in quel momento, ciò che il convento poteva passare. Abbiamo dovuto imparare a fare i conti. A capire quando investire e quanto investire. Quando chiedere e quanto chiedere. Alla fine siamo tornati a fare il nostro mestiere, le gomme, e, in un certo senso, abbiamo ancora occupato la Marangoni. Non come dipendenti licenziati, ma come principali fornitori.
Sono orgoglioso di aver vissuto da protagonista questo passaggio, semplificato dal fatto che è cambiata la mentalità dei dirigenti che oggi governano quella fabbrica.Non ragionano più da padroni. Trattano sul prezzo, certo, ma da imprenditori non da sfruttatori. Quando racconto ai miei giovani colleghi cosa vuol dire occupare una fabbrica per 45 giorni essi sgranano gli occhi. Qualcuno sorride. Nessuno riesce a capire. Per me è significato dormire fuori dal mio letto, non poter salutare ogni giorno la mia bambina, rinunciare al calore della mia casa. Così, però, ho difeso la mia dignità. Il diritto a non pagare con il licenziamento il mio impegno politico. In cooperativa la mia voglia di lavorare ha trovato la migliore espressione. Senza compromessi.
Osvaldo Salvetti