cooperativa
Cantina sociale di Trento Le Meridiane
Trento - Trentino Alto Adige/Süd Tirol
La cooperazione la vivo, la sento, ci credo”. Il percorso da un’agricoltura di sussistenza ad attività industriale. L’appello alla qualità e all’attenzione ai soci, che vanno informati, formati e coinvolti. Solo così potranno avere gli strumenti per capire che a volte un piccolo sacrificio può preparare la strada ad un futuro con maggiori certezze
Di Elvio Fronza, presidente Cantina sociale di Trento Le Meridiane
La cooperazione non l’ho cercata, mi è capitata addosso quando ero giovanissimo e mi è entrata per sempre nel cuore. Avevo 14 anni, quando ho cominciato ad accompagnare mio zio Dario in tutto il Trentino, con la vecchia Topolino, alle assemblee delle 250 Famiglie Cooperative. Allora non ero interessato alla discussione dei bilanci, ma gironzolavo per i paesi, per parlare con le persone, capire le usanze e scoprire i tesori del nostro territorio. Mi fermavo a fare due chiacchiere all’oratorio, a visitare la chiesa e, per ultimo, il cimitero. È lì che ho imparato a collocare nella mia mente la provenienza delle famiglie attraverso il cognome. Mio zio Dario era quello che oggi chiameremmo direttore del settore consumo della Federazione che allora, nel 1957, contava in tutto 18 dipendenti.
Terminati gli studi di avvocato, cominciai ad esercitare la professione, anche all’interno del mondo cooperativo in modo occasionale, prima di essere estromesso senza alcuna spiegazione. Ma allora il mio animo, o forse il mio cuore, era già conquistato e sono qui, a 86 anni, a fare ancora il cooperatore. L’impegno diretto ha preso il via, quando nella cooperativa di cui ero socio conferitore, la Cantina sociale di Trento, era in corso una strana emozione: procedere o meno con la fusione per incorporazione da parte della consorella di Lavis. Avevamo già cominciato il percorso rischioso e costoso di acquisizione della Concilio Vini, società partecipata da tutte le cantine, compresa Cavit. Stavamo acquisendo le quote delle cantine fuggiasche, con sacrificio in termini di minori remunerazioni per riuscire a coprire i costi di questa impresa. Un percorso, quindi, su cui avevamo investito molto e che era in manifesta antitesi con la fusione.
“Vieni a dare una mano”, mi chiesero alcuni soci. E così andai, intervenni in assemblea e divenni presidente. “Per derivazione” entrai nei Consigli di amministrazione di Cavit, della Camera di Commercio a rappresentare l’agricoltura e guidai il Consorzio vini del Trentino per 15 anni. Nella mia esperienza di cooperatore ho visto l’agricoltura cambiare profondamente, passando da pura sussistenza ad attività industriale. Mai avrei immaginato che il Trentino potesse arrivare a produrre le quantità di oggi e non credo sia questa la strada giusta. Mi piacerebbe che producessimo la metà del vino e che riuscissimo a venderlo al doppio del prezzo. Questa, secondo me, è la strada maestra e passa inevitabilmente per il rispetto della terra e per la ricerca della qualità, se non proprio dell’eccellenza. La qualità si ottiene attraverso due procedimenti: non “caricando” la pianta e non scegliendo cloni troppo fecondi.
Se la pianta è sana e non è stressata dal troppo lavoro, cresce bene e si difende da sola. Invece continuiamo a costruire i presupposti per produrre sempre di più. Con dolore dico, che questo può portarci a momenti tristi, difficili. Dobbiamo temere il crollo del mercato americano, il primo nostro cliente. Quando l’America metterà i dazi o semplicemente deciderà di ingrandire i vigneti non solo californiani, cosa ce ne faremo di tutto il nostro vino? In Australia comincia a piovere e i deserti stanno diventando vigneti. Così come in Argentina, in Cile e nella parte alta del Brasile. Bisogna prepararci a produrre poco e bene, perché il “buono va sempre”. Agli altri non posso imporre questo mio pensiero, ma nella mia cantina è questa la politica che perseguiamo. E l’Alto Adige è maestro. Nel mondo si beve sempre meno. Il grande consumatore è scomparso. La via è segnata. Certo, è vero che ci sono soci che hanno terreni poco vocati e che anche loro devono avere un reddito dignitoso.
E la consapevolezza della situazione passa attraverso l’informazione e la formazione. Nella mia cantina “facciamo Consiglio” quasi tutte le settimane, comunque più volte ogni mese e ci teniamo che tutti i consiglieri intervengano e dicano la loro opinione. Le assemblee sociali non sono una, per il bilancio, ma sono tre o quattro, per spiegare un investimento, una novità tecnica o altri argomenti che interessino i soci. Solo spiegando le cose del mondo, i soci possono scegliere con consapevolezza per il loro futuro: formare, informare, stare insieme, parlare e confrontarsi. Certo, poi il loro reddito deve essere garantito. Il sacrificio, che si chiede deve essere contenuto e temporaneo e mai intaccare quel reddito ad ettaro che consente di vivere. E nel frattempo si deve far comprendere al mercato la differenza qualitativa che si propone. Le nicchie si salvano sempre, perché i buoni conoscitori sanno dove trovarle. E questo deve capirlo ogni contadino.
Cooperazione vuol dire autonomia, rispetto del territorio e soprattutto interconoscenza. Se penso alla riforma del credito cooperativo e alla nascente Cassa Centrale, sono preoccupato. In questo progetto le piccole Casse Rurali scompaiono e lasciano il loro spazio di decisione e autonomia alla capogruppo, che può nominare amministratori, gestire le operazioni di un certo spessore. Le Casse Rurali resteranno, forse, piccoli sportelli sperduti. I grandi colossi servono per prendere in fretta le grandi decisioni, per occuparsi di alcune fasi operative ed organizzative. E in questo sono preziosi. Ma non devono sopprimere le cooperative di primo grado! Deve sempre essere il basso a decidere per l’alto, così che l’alto si trasformi in basso e il basso in alto: la famosa “piramide” che è anche il forte richiamo religioso della natura cooperativa.
La Federazione subirà una necessaria cura dimagrante: quando Cassa Centrale avrà la sua sede nella capitale, la Federazione perderà una grande fetta di operatività e di contributo. Resteranno le cantine, le cooperative ortofrutticole, i piccoli frutti, tanto sociale e servizi e il settore del consumo, che perde colpi. La cooperazione è la mia vita. La mia famiglia è da tempo compiuta: io e mia moglie siamo nonni di ragazzi di vent’anni. Anche se mi trovo a casa a leggere Platone e a guardare Marco Polo alla tv, perché non posso più viaggiare dove ho sempre portato la mia mente a riposare, nel deserto del Sahara, alla cooperazione non rinuncio. La vivo, la sento, ci credo. Insieme si fanno tante di quelle cose, che il singolo non può neanche immaginare. La cooperazione non ha bisogno di sultanati o palazzi, ma di umiltà e buona volontà. Per dirla con le parole dell’amico professor Geremia Gios, è una buona pratica. È una “chiesa” di civiltà e di buona economia.